COME IL CASO DI LANZA ROSA VEDOVA DE PAOLI
DEGENZE IMPROPRIE IN CASE DI RIPOSO E DIRITTI DEGLI ANZIANI CRONICI NON AUTOSUFFICIENTI
GIACOMO BRUGNONE
Stiamo assistendo ad una progressiva delegittimazione della Costituzione e della vigente normativa in materia di sicurezza sociale. Con la pratica degli atti amministrativi e dei decreti si stanno infatti mortificando i principi costituzionali secondo i quali tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge (art. 2 Cost.) e devono vedersi garantito dallo Stato il diritto alla salute (art. 32) e al mantenimento, nei casi di invalidità (art. 38). Tutto ciò avviene nonostante il fatto che questi principi siano attuati da ben precise norme legislative quali: la riforma sanitaria, le leggi istitutive della pensione di invalidità civile, dell'indennità di accompagnamento e della pensione sociale, nonché la legge che regola le integrazioni degli importi pensionistici minimi.
In questo articolo limito la mia analisi alle discriminazioni cui sono fatti oggetto gli ammalati cronici non autosufficienti, ai quali vengono negate prestazioni sanitarie direttamente e gratuitamente erogate dal Servizio sanitario nazionale. Questi ammalati vengono scaricati al comparto assistenziale, così che viene meno la continuità degli interventi terapeutici e riabilitativi, e sono costretti a sopportare gran parte dei costi relativi a prestazioni spesso inadeguate.
Per contestare la legittimità di queste scelte politiche, vorrei proporre ai lettori alcune riflessioni sulla composizione dell'attuale utenza delle case di riposo, al fine di rilevare l'alta percentuale di degenze improprie, nonché sull'opportunità di attuare una diversa politica a tutela di questi ammalati, includendo nel novero anche quegli anziani che hanno perduto l'autosufficienza a causa dell'età avanzatissima; oggi esistono in Italia oltre 1.250.000 ultraottantenni, e fra questi 150.000 hanno superato i novant'anni.
Do per scontate tutte le argomentazioni addotte a sostegno del diritto degli ammalati cronici non autosufficienti all'assistenza sanitaria, che condivido in pieno, e propongo un'analisi incentrata sulla contrapposizione fra sicurezza sociale da un lato e pubblica beneficenza e carità privata dall'altro, in luogo di quella tradizionale fra sanità ed assistenza.
Prima di entrare nel vivo dell'argomento, vorrei però analizzare brevemente i meccanismi che hanno contribuito a determinare la situazione attuale.
Vecchie e nuove forme di povertà
Nel secolo scorso la miseria era la condizione in cui viveva la stragrande maggioranza della popolazione; operai e contadini traevano dal loro lavoro lo stretto necessario per sopravvivere; e la situazione è rimasta pressoché immutata fino ai primi decenni del nostro secolo. Il benessere che si é progressivamente diffuso nel secondo dopoguerra, caratterizzato dal generale incremento del reddito reale a disposizione della stragrande maggioranza delle famiglie, ha fatto ottenere a moltissima gente ciò che una volta era monopolio delle classi dominanti: casa, istruzione, salute e una certa protezione contro il rischio di vecchiaia e malattie. La povertà di massa, depurata sempre più dei suoi aspetti eclatanti di miseria assoluta, riguarderebbe oggi l'11,1% dell'intera popolazione, cui andrebbe un altro 7,9% di cittadini che, pur non essendo miseri, sono soggetti a notevoli disagi economici (1).
Per avere un'idea dì come sono mutate le cose negli ultimi quarant'anni, bastano alcuni dati. Nel 1946, 6 cittadini italiani su dieci si nutrivano esclusivamente di pane, minestra e verdura; 3 si permettevano anche qualche uovo e qualche fettina di carne; solo uno mangiava abbondantemente (2). Nello stesso anno il reddito netto di cui poteva disporre ogni italiano, era in lire del 1985 quasi un settimo di quello attuale, quindi inferiore all'importo dell'odierna pensione sociale. Nello stesso periodo è raddoppiato il numero delle abitazioni, più che triplicato quello degli italiani che vanno in villeggiatura; i consumi procapite di carne bovina sono passati da 4 a 23 Kg. annui, da 3 a 23 quelli di carne suina, da 27 a 117 di frutta, da 4 a 16 di formaggio, da 34 ad 84 litri di latte e si potrebbe continuare a lungo (3).
Stiamo quindi assistendo ad un'importante trasformazione sociale: l'antica povertà va perdendo le sue connotazioni di fenomeno di massa, per annidarsi prevalentemente fra gli occupati precari, i disoccupati privi di altri sostentamenti ed i titolari di pensioni inadeguate; contemporaneamente stanno sempre più assumendo consistenza le nuove forme di povertà, che causano la emarginazione di soggetti colpiti da disagi psicofisici e/o sociali. Costoro, disabili, etilisti, drogati, appartenenti a famiglie disgregate, a minoranze etniche, culturali, ecc., pur potendo contare su redditi che spesso non si discostano dalla media, sono da annoverarsi fra i nuovi poveri a causa dell'inadeguatezza dei servizi sociali che dovrebbero aiutarli a superare le loro difficoltà, e della marginalizzazione culturale cui vengono fatti segno.
Dello stesso avviso sono anche le conclusioni cui è pervenuta la commissione Gorrieri, che ha analizzato il fenomeno della povertà in Italia. I dati, che riporto nel corso dell'articolo, smitizzano infatti il luogo comune che vuole gli anziani prevalentemente poveri e soli, quindi bisognevoli di ricovero in ospizio; ed avvalora indirettamente la tesi secondo cui le case di riposo svolgono il ruolo sostitutivo di un intervento sanitario o comunque sociale negato. Non sono cioè un intervento riparatore dì vecchie forme di povertà, bensì contribuiscono a produrne di nuove. Secondo dati riportati dalla suddetta indagine, gli anziani sono una categoria di soggetti a rischio, non tanto per grave disagio socio-economico, quanto per la perdita di autosufficienza psicofisica. Secondo dati ISTAT nel 1980 (ultimi disponibili), il 44% degli ultrasettantenni, contro il 14% di tutta la popolazione dichiarava di non godere buone condizioni di salute e, fra costoro, il numero di quelli che a causa di tale motivo necessitavano di cure più o meno continue ammontava ad un milione e mezzo.
Attualmente le condizioni economiche degli anziani sono migliorate. Negli ultimi 18 anni infatti gli importi delle pensioni sociali sono aumentati di quasi venti volte, di circa quindici quelli delle minime. Nel gennaio 1985 le pensioni di importo superiore al milione incidevano per il 2% sul totale di tutte quelle erogate dal fondo lavoratori dipendenti dell'INPS; per il 9% quelle superiori alle 700.000 e per il 71% le minime. Se prendiamo poi in considerazione gli importi delle sole pensioni liquidate nel triennio 82/84 dal medesimo fondo, possiamo constatare come, anche se in misura ancora inadeguata, le condizioni economiche dei nuovi pensionati stanno migliorando e miglioreranno ulteriormente per quelli futuri; infatti, sempre al 1° gennaio 1985, quelle di importo superiore al milione mensile incidevano per il 7% sul totale, per il 20% quelle superiori alle 700.000 lire e per il 53% quelle minime, che incidono rispettivamente per il 13%, 34% e 43% se riferite alle sole pensioni di vecchiaia (4).
Ciò nonostante gli ultrasessantacinquenni poveri sarebbero oggi, secondo la commissione Gorrieri, 1.360.000, cioè il 21% dì tutti gli anziani. Di questi, 411.000 vivono soli, 653.000 in coppia e 295 in famiglie composte da oltre 2 persone. A parità di reddito essi sono però meno poveri dei giovani, sia perché hanno minori esigenze consumistiche, sia perché dispongono spesso di maggiori risorse economiche non documentabili, trasferite loro da congiunti ed amici (indumenti smessi, cibo, ospitalità occasionali, ecc.).
La povertà e la solitudine, pur continuando ad essere un fenomeno rilevante fra questi soggetti, non costituiscono, a mio avviso, elemento determinante ai fini del ricovero; lo divengono invece quando la povertà assume una connotazione multidimensionale e all'indigenza si assommano anche solitudine, età avanzata e perdita di autosufficienza psicofisica.
La nuova utenza delle case di riposo
Questa affermazione è ampiamente confermata dai dati relativi alle motivazioni che hanno indotto 4.188 cittadini veneti ad optare per il ricovero in case di riposo nel periodo compreso fra aprile 1985 e aprile 1986 (5). I motivi principali (e non unici) addotti dai neo ricoverati sono così sintetizzabili:
- perdita di autosufficienza psicofisica nel 47% dei casi;
- solitudine nel 14%;
- situazioni di emergenza dovute ad impossibilità dei congiunti di continuare ad occuparsi degli anziani, che provocano ricoveri spesso temporanei, nel 13%;
- desiderio di tranquillità, nel 9%, che sono poi gli unici casi di presunta libera scelta, o meglio di scelta condizionata da precedenti situazioni insostenibili;
- rapporti familiari difficili nel 3%, o meglio rifiuto esplicito della famiglia di continuare a prendersi cura del congiunto (un dato questo chiaramente sottovalutato);
- alloggio inidoneo nel 3%;
- isolamento socio-abitativo nell'1%;
- sfratto esecutivo nell'1 %;
- disagiate condizioni economiche, che ricorrono quando l'anziano non è in grado di provvedere decorosamente con il proprio reddito alle esigenze primarie della vita, nell'1 %.
A queste trasformazioni sociali si sono adeguate le funzioni e l'utenza delle case di riposo che, nonostante le buone intenzioni, sono da sempre luogo di emarginazione dei più deboli. Infatti, sino a non molto tempo fa, esse, volute dalla munificenza dei benefattori quale atto di «giustizia» e di «amore», erano luogo di accoglienza per indigenti e disabili poveri; oggi, volute da interessi privati e/o politici, sono divenute un grosso business economico e clientelare, sovente un atto di ingiustizia nei confronti dei cosiddetti «cronici» espulsi dal Servizio sanitario nazionale, che vi entrano spesso benestanti per divenire, altrettanto spesso, mendicanti a causa degli alti costi delle rette.
Se riteniamo che questi cittadini abbiano diritto alla sicurezza sociale, ogni sforzo deve essere proteso al superamento e non alla razionalizzazione delle case di riposo, pena il rischio di trovarsi di fronte ad un ordinato e lindo sistema di pseudocase di cura private, scollegate dal Servizio sanitario nazionale, in cui si praticano esclusivamente cure minime ed assistenza generica; la qual cosa sarebbe doppiamente negativa, in quanto da un lato si disincentiverebbe la corretta pratica della medicina e della geriatria, per relegarle al ruolo di medicina dì «serie B», affidata agli operatori esclusi dall'esercizio dell'attività all'interno della sanità ufficiale; e dall'altro si incentiverebbe quest'ultima a produrre cronici, così da potersi liberare di pazienti poco gratificanti, curabili ma non guaribili. Si verrebbe così a legittimare la creazione di serbatoi per cronici non riabilitabili, nei quali morire senza rompere le scatole al resto del mondo, ed a costi i più contenuti possibile.
Per sancire l'illegalità del ruolo svolto da queste strutture è indispensabile dimostrare come la loro utenza tende sempre più ad essere composta prevalentemente da ammalati e/o comunque da non autosufficienti ai quali la vigente legislazione riconosce già, indipendentemente dai virtuosismi semantici e burocratici di molti tecnici e politici, il diritto alla sicurezza sociale, quindi a prestazioni direttamente erogate dal Servizio sanitario nazionale, o comunque dallo Stato.
Consistenza dei non autosufficienti e loro incidenza sui ricoverati in case di riposo
Mentre esistono dati quantitativi, non esistono dati qualitativi sull'utenza delle case di riposo italiane. Quelli riportati, relativi alla Regione Veneto ed al Comune di Venezia, non dovrebbero però scostarvisi di molto: danno comunque una idea della consistenza del fenomeno e delle sue peculiarità.
Negli ultimi dieci anni il numero degli ospiti delle case di riposo del Veneto è aumentato del 14%, passando dai 18.230 del 1976 (6) ai 20.755 del 1986, corrispondenti al 3,7% di tutti gli ultrasessantacinquenni residenti nella regione. Nello stesso periodo l'incidenza dei non autosufficienti é passata dal 37 al 52% di tutta l'utenza, per portarsi al 63% dei ricoverati nel periodo aprile 1985 - aprile 1986. L'indice di saturazione delle case di riposo del Veneto è del 94,1%; ciononostante esiste una lista di attesa di complessivi 1.297 aspiranti al ricovero.
Quanto alla situazione del Comune di Venezia, non esistono dati ufficiali complessivi, tuttavia è a mio avviso credibile una stima di 2.000/2.200 residenti ricoverati in istituti della Regione e (in minima parte) di altre Regioni.
Per cogliere però tutta la gravità del fenomeno, è opportuno prendere in considerazione anche il luogo dei decessi, che coincide con quello in cui ha generalmente vissuto l'anziano nel periodo immediatamente precedente la morte, elemento questo indicativo del nostro modello di organizzazione sociale.
Secondo una nostra recentissima indagine, che costituirà oggetto di una prossima pubblicazione, nel 1985 su 2.680 decessi di ultrasessantacinquenni veneziani, l'89,11% è avvenuto in strutture residenziali collettive, l0 0,93% in luoghi pubblici non residenziali e solo il 9,96% in abitazioni private. Confrontando questi dati con quelli analoghi relativi al 1981 (7), si può notare una lieve riduzione dell'incidenza dei decessi in abitazioni private, dal 10,26 al 9,96% (-0,30%), e di quelli in case di riposo, dal 12,96 al 10,94% (-2,02%), ed un incremento di quelli in ospedale, dal 70,27 al 71,75% (+1,48%) e in cliniche convenzionate col Servizio sanitario nazionale, dal 2,2 al 6,42% (+4,22%).
I 293 decessi in case di riposo, pari al 10,94% di tutti i decessi, sono una cifra considerevole; non danno però la dimensione del dramma esistenziale dei soggetti appartenenti alla cosiddetta «quarta età». Nel 1985 sono, infatti, morti in queste strutture assistenziali un ultraottantenne ogni 5,7, cioè il 17,5% di tutti i decessi relativi ai soggetti appartenenti a queste classi di età; che divengono rispettivamente uno ogni 4,6, pari al 21,78% se riferiti ad ultraottantacinquenni, e uno ogni 3,75, pari al 26,64%, se riferiti ad ultranovantenni. Se vogliamo poi prendere in considerazione lo stato civile dei deceduti, constatiamo che solo il 4,23% di tutti i coniugati, contro il 18,32% di tutti i non coniugati ed il 14,26% di tutti i vedovi è morto in casa di riposo.
Questa tendenza, che per Venezia è relativamente positiva se comparata ad altre realtà d'Italia (incremento dell'incidenza percentuale dei ricoveri sanitari e decremento di quelli assistenziali), rischia però di essere vanificata, qualora dovesse prevalere, a livello nazionale, la filosofia dell'espulsione degli ammalati cronici dal comparto sanitario. Se ciò accadesse, la casa di riposo diverrebbe sempre più il luogo in cui andare a passare gli ultimi anni (o giorni o mesi) di vita per poi morirvi. Un triste modo di concludere la propria vita per l'uomo comune, una vendetta della storia per quanti si sono fatti promotori di questa politica e per quanti, avendone i mezzi, non l'hanno contrastata.
La deportazione assistenziale
Con questo termine intendo lo sradicamento dell'anziano ricoverato dal suo contesto socioambientale ed il suo trapianto in realtà che gli sono estranee; la qual cosa si traduce in un suo allontanamento da amici e congiunti che, a causa delle distanze, diraderanno le occasioni di visita, sino a troncarle (non di rado) definitivamente.
Non esistono dati complessivi sulla consistenza di questa deportazione; gli unici di cui possiamo disporre sono quelli relativi agli assistiti dall'Amministrazione comunale di Venezia, che nel 1985 ammontavano a 1.529 unità (8). Di questi il 77,8% era accolto in strutture site nello stesso comune, il 6,1% in altri comuni della provincia, il 15,5 in altre province del Veneto e l'1,1% fuori regione.
Quanto all'esodo dei ricoverati paganti in proprio, è lecito presumere che la sua consistenza sia superiore; ciò a causa delle rette più contenute praticate dalle strutture situate in zone decentrate, che presentano anche altri «vantaggi» quali un clima più salubre e dimensioni ridotte cui fa riscontro un trattamento più casalingo.
Le caratteristiche di queste strutture, povere di servizi sanitari, lasciano, presumere che la loro utenza sia costituita prevalentemente da soggetti autosufficienti o comunque affetti da patologie modeste; ne è una conferma l'esiguo numero di veneziani deceduti in tali strutture nel 1985 (18 in tutto).
Il costo dell'esclusione
I tagli della spesa pubblica, imposti dalle nuove politiche finanziarie, penalizzano doppiamente gli anziani non autosufficienti, una prima volta con l'espulsione dal comparto sanitario e con il rifiuto delle prestazioni dovute, una seconda volta facendo pagare loro, sempre più frequentemente, il costo della retta di ricovero in casa di riposo. Il caso del Comune di Venezia è emblematico di questa situazione. Nel 1985, per assistere 1.529 ricoverati, esso ha speso poco più di 15 miliardi cui vanno aggiunti oltre i 4 miliardi di contributi dei ricoverati e circa 715 milioni di contributi dei familiari per un costo medio annuo di 13 milioni per assistito, coperto al 75% dal Comune, al 21,5% dagli interessati ed al 3,5% dai contributi dei parenti. A questi importi già considerevoli va aggiunta la corresponsione del contributo forfettario regionale per prestazioni sanitarie (9), riconosciuto ai soli ricoverati non autosufficienti.
Questi dati si riferiscono ai vecchi ricoveri, per quelli nuovi la situazione è drammaticamente peggiorata in quanto oggi il Comune tende sempre più a stringere i cordoni della borsa e ad operare una drastica selezione degli aventi diritto. Esso infatti, troppo spesso, sostituisce il pagamento della parte di retta non coperta dai redditi degli assistiti, con contributi forfettari generalmente inadeguati, che i congiunti sono poi costretti ad integrare ampiamente. Secondo i dati forniti dalla regione Veneto (5), questa tendenza ha assunto una dimensione allucinante; negli ultimi 15 mesi infatti, se si eccettua il suddetto rimborso regionale per spese sanitarie, l'Ente locale è intervenuto soltanto nel 30% dei ricoveri e con contributi più modesti che in passato, cosicché in tutti gli altri casi (oltre il 70%) gli interessati hanno dovuto provvedere in proprio al pagamento delle rette.
Se raffrontiamo poi l'importo delle rette al reddito effettivo della stragrande maggioranza di questi cittadini (10), risulta evidente come tale nuova scelta rappresenti un'ulteriore insostenibile pressione contributiva ai danni delle famiglie giovani, i familiari che peraltro non sarebbero tenuti a provvedervi (11) e che sono già così duramente provati dai tagli previdenziali e dalla politica dei redditi (12).
Con questi costi la situazione diviene spesso insostenibile anche per i titolari di redditi medio alti, tanto che in questi casi si stenta a capire dove abbia fine la nuova povertà dovuta ai disagi psicofisici, e dove abbia inizio la vecchia miseria dovuta alla difficoltà a far fronte al soddisfacimento dei costi dei ricoveri.
L'ammalato cronico in casa di riposo
Su 4.188 nuovi ricoveri nelle case di riposo del Veneto, avvenuti nel periodo aprile 1985 - aprile 1986, il 71% è costituito da donne ed il 29% da uomini. Dieci anni or sono erano rispettivamente il 69% ed il 31 %; si è quindi verificata una crescita tendenziale dell'incidenza delle donne sul totale degli ospiti del 2%. Questa tendenza è ampiamente confermata dalla preponderanza percentuale dei decessi delle donne. Nel 1985 infatti, su 293 veneziani deceduti in case di riposo, 212, pari al 72,35%, erano donne. Sarebbe però semplicistico attribuire questa maggiore incidenza esclusivamente alla loro longevità, cui logicamente consegue la loro prevalenza nelle classi di età più avanzate, che sono poi quelle maggiormente soggette al rischio di ricovero (13).
Altri elementi che vi contribuiscono sono la preponderanza dei non sposati(e) e dei vedovi(e) tra i nuovi ricoverati, le trasformazioni della famiglia ed il ruolo discriminante attribuito alla donna al suo interno, nonché i minori redditi di cui questa può generalmente disporre quando è sola.
Analizzando lo stato civile dei nuovi ricoverati, risulta che il 77% è costituito da non sposati (celibi e nubili) e da vedovi(e), rispettivamente 26% e 51%, categorie all'interno delle quali la presenza femminile è pressoché tripla rispetto a quella maschile (14). Per avere una visione completa del fenomeno, sarà opportuno ricordare come un altro 2% è costituito da separati, un 1% da divorziati ed un 12% da coniugati (il residuo 8% risulta non censito). Questo dato si compenetra e si integra con quelli relativi alle conseguenze delle trasformazioni della struttura familiare, che negli ultimi trent'anni ha perso le sue residue connotazioni patriarcali per passare attraverso una strutturazione nucleare, che diviene sempre più unicellulare, cioè composta da una sola persona (15).
Nel periodo 1951/81 il numero dei componenti della famiglia media veneta è passato da 4,7 a 3; sono contemporaneamente aumentate del 79% le famiglie composte da un'unica persona, del 41% quelle con due, del 25% quelle con tre e quattro; è invece diminuito del 23,3% il numero delle famiglie con cinque o più componenti; nello stesso periodo la percentuale delle famiglie complesse, cioè composte da più nuclei conviventi, è passato dal 33% al 12,6%. Una delle conseguenze di queste trasformazioni strutturali, è la caduta della solidarietà familiare (per impossibilità a farvi fronte), che diviene particolarmente evidente nei casi in cui ad aver bisogno di assistenza è una donna, in quanto è sempre più difficile trovarne una seconda nella stessa famiglia in grado di provvedervi. Non dobbiamo infatti dimenticare come alla donna sia stato delegato il compito dell'assistenza, che si assomma alle cure domestiche e alle attività lavorative tradizionali.
In assenza o carenza di solidarietà parentale e/o di servizi sociali, si deve ricorrere all'assistenza domiciliare privata, accessibile esclusivamente a chi ne abbia i mezzi economici; le anziane di oggi, che sono molto spesso le casalinghe di ieri, possono accedervi meno frequentemente che gli uomini e debbono generalmente rassegnarsi al ricovero, a meno che non siano titolari di cospicui patrimoni personali o di una consistente posizione previdenziale. Questa ultima ipotesi è però abbastanza rara in quanto, nella stragrande maggioranza dei casi, sono titolari di pensioni minime (di reversibilità o anzianità), e solo nell'1% dei casi, contro il 7% degli uomini, fruiscono di una pensione (fra quelle erogate dal Fondo lavoratori dipendenti dell'INPS) di importo superiore al milione mensile (5).
Un ultimo dato a conferma della discriminazione cui la donna è soggetta, è rappresentato dalla forte tendenza presente in sede di dibattito per la formulazione delle leggi finanziarie a ridurre la fiscalizzazione degli oneri sociali sulla manodopera femminile, così da disincentivarne l'occupazione, quasi a volerla rìcondurre al tradizionale ruolo casalingo ed assistenziale all'interno della famiglia (16).
L'assistenza sanitaria agli anziani non autosufficienti a Venezia
I dati, che emergono dalla nostra recentissima indagine sull'ubicazione dei decessi di ultrasessantacinquenni veneziani, lasciano intravedere luci ed ombre dell'assistenza sanitaria agli anziani non autosufficienti residenti nel nostro Comune.
Dal confronto dei dati omogenei relativi agli anni 1981 e 1985, si evidenzia un incremento - in termini assoluti e percentuali - dei decessi avvenuti nelle strutture sanitarie residenziali, sia in quelle pubbliche (+101 pari a +5,5%) passati da 1.822, pari al 70,27% di tutti i decessi, a 1.923, pari al 71,75% degli stessi; sia in quelle convenzionate (+115 pari a +202%) che sono addirittura triplicate, passando da 57, pari al 2,2%, a 172, pari al 6,42%. Di contro si è verificato un decremento di quelli avvenuti in case di riposo (-43 pari a -14,6%) passati da 336, pari ai 12,96% a 293, pari al 10,94% di tutti i decessi.
Il giudizio su questo fenomeno non può che essere articolato: positivo, per quanto riguarda il fatto che il Servizio sanitario nazionale tende a scaricare sempre meno al settore assistenziale gli ammalati in fase terminale ed i cronici più gravi; negativo, per il fatto che le case di riposo, pur accogliendo sempre meno questi utenti, tendono ad ospitare sempre più quelli non autosufficienti stabilizzati.
Questi dati, che approfondiremo in un prossimo lavoro, evidenziano un fenomeno che è stato reso possibile dall'incremento della disponibilità di posti letto per lungodegenti presso cliniche convenzionate con rette a totale carico del Servizio sanitario nazionale.
Tali elementi non possono però indurci toutcourt a farci promotori di un servizio sanitario per soli anziani, magari gestito da privati; anche se con questi presupposti è facile immaginare come diverrebbe obbligata la scelta di strutture geriatriche ghettizzanti, in luogo di servizi sanitari teoricamente aperti a tutti, ma che di fatto tendono a non accogliere molti anziani. Questi elementi debbono quindi farci riflettere su come promuovere un servizio sanitario concretamente aperto a tutti.
Riferendoci alle cliniche convenzionate, non dobbiamo dimenticare che queste si configurano spesso come una razionalizzazione delle strutture assistenziali, e si differenziano da queste ultime solo per «il chi deve pagare le rette». Il ricorso alle cliniche convenzionate lascia inoltre immutata la tendenza del Servizio sanitario nazionale a produrre cronici per scaricarli ad altri. Un ulteriore elemento che ci induce ad esprimere un giudizio negativo sulla tendenza in atto, è quello relativo ai numero dei decessi avvenuti in abitazioni private (10,08%). Partendo infatti dal presupposto logico che almeno un anziano su dieci possa morire dì morte naturale, all'improvviso o per futili cause, si è portati a trarre la conclusione che i1 Servizio sanitario nazionale, oltre ad ignorare la prevenzione della cronicità, ignora anche le cure e la riabilitazione praticate in strutture che non siano quelle residenziali, é che sono peraltro negate a troppi anziani non autosufficienti.
Degenze improprie e degenze illegittime
Il ruolo di monopolio attribuito agli ospedali nel campo della medicina specialistica, costituisce il principale fattore di destabilizzazione dell'assistenza sanitaria, in quanto produce il fenomeno delle degenze improprie o quello della omissione di assistenza (illecite dimissioni o non accettazione in ospedale di determinate categorie di ammalati).
Nel linguaggio comune si intendono per degenze improprie, tutti quei ricoveri ospedalieri che richiedono prestazioni teoricamente praticabili anche a domicilio o ambulatoriamente (accertamenti diagnostici, prestazioni riabilitative, assistenza generica ed infermieristica, cure minime ecc.). Indipendentemente però dal fatto che si concordi o meno con questa valutazione, le degenze improprie potranno dar luogo a dimissioni o non accettazioni solo qualora divengano illegittime, cioè nel caso in cui il Servizio sanitario nazionale sia in grado di assicurare prestazioni alternative quantitativamente e qualitativamente adeguate, o comunque qualora ciò sia esplicitamente previsto da precise disposizioni di legge che non contrastino col principio costituzionale che assicura a tutti i cittadini eguali diritti alla salute.
Per smitizzare il luogo comune che vuole gli ammalati cronici non autosufficienti tra i principali responsabili del dissesto finanziario della sanità, riporto le conclusioni cui sono pervenuti due ricercatori in un'indagine sulle degenze improprie (17).
Su 408 ricoveri presi in esame (186 in una divisione medica e 222 in una chirurgica), il 79,65% può considerarsi costituito da ricoveri appropriati, il 18,13% da ricoveri impropri ed il 2,2% di dubbia necessità. Su un totale di 74 degenze improprie n. 24 (32,4%) sono state motivate da accertamenti eseguibili anche ambulatoriamente, n. 22 (29,7%) da terapie eseguibili a domicilio, n. 9 (12,1%) da patologie di tipo psichico seguibili anche ambulatoriamente, n. 7 (9,5%) da patologie non di competenza del reparto considerato, n. 1 (1,4%) per evitare tempi di attesa per indagini strumentali, n. 3 (4,1%) per altri motivi, e solo 8 (10,8%) per i cosiddetti motivi assistenziali. L'indagine prende poi in considerazione le ritardate dimissioni dovute a cause non mediche. I motivi che hanno causato prolungamenti delle degenze per 25 ricoverati della divisione medica sono così sintetizzabili: 7 casi per motivi organizzativi del reparto, 6 assistenziali, 5 perché il paziente non si sentiva guarito, 2 per ritardo nella consulenza specialistica, ed un caso per ognuno dei seguenti motivi: trasferimento in casa di riposo, ritardo nell'esecuzione di indagini strumentali, attesa posto letto in altra ULSS, trattamento fisioterapico, patologia iatrogena.
Su questo argomento si potrebbe scrivere all'infinito, non ci sarebbe che l'imbarazzo della scelta. Pazienti letteralmente dimenticati in corsia, altri che si vedono ripetutamente rinviato l'intervento operatorio, altri in lista d'attesa per accertamenti diagnostici quali il TAC, ecc. Ma quel che è più scandaloso sono i casi di ricoveri, sollecitati prima, e prolungati a dismisura dai sanitari poi, per giustificare la sopravvivenza di reparti e divisioni superflue; all'ospedale di Malo (Vicenza), costi di degenza giornaliera due milioni, quindici giorni di ricovero per un callo, diciotto per una ciste. Senza poi contare l'abuso di accertamenti diagnostici (decine di elettrocardiogrammi allo stesso paziente), nonché un elenco di quelle che sembrano vere e proprie torture: 93 applicazioni di crioterapia su un solo paziente, 85 iniezioni sclerosanti su di un altro. Il risultato, oltre ai rischi per i pazienti, è che tutto ciò ha costi sociali elevatissimi (18).
Chiaramente questo è un caso limite; si possono però citare situazioni altrettanto gravi che rientrano nella norma. All'ospedale geriatrico G.B. Giustinian di Venezia funzionavano un reparto ginecologico ed uno di otorinolaringoiatria, a dir poco grotteschi. Il primo accoglieva non più di due o tre ricoverate contemporaneamente e dicono che, quando giungevano in visita ufficiale amministratori e politici, si faceva prestare pazienti da altri reparti. Il secondo teneva ricoverati pazienti affetti da labirintosi (ai quali veniva somministrata solo qualche pastiglietta e forse qualche iniezione al giorno) anche per 60 giorni. Nello stesso ospedale si lesina sulla durata delle degenze dei cronici. Ora il primo reparto è stato chiuso ed il secondo è in procinto di esserlo, solo perché si è trovata una collocazione più prestigiosa per i due primari che prima vi si erano opposti con tutti i mezzi.
A chi compete il trattamento del cronico non riabilitabile?
Definita la nuova illegittima funzione attribuita alle case di riposo e le contraddizioni insite nell'organizzazione del Servizio sanitario nazionale, non mi pare opportuno lasciarmi andare a disquisizioni sul numero di patologie dalle quali sono mediamente affetti i ricoverati, né tanto meno sulle più idonee modalità di intervento; meglio è andare dritti al merito del problema, chi è competente a trattarli, o meglio chi è obbligato a farlo?
Da più parti si sostiene, ad esempio, che il trattamento dell'emiplegico, o più semplicemente delle sue piaghe da decubito, cessa di essere competenza della sanità per passare al comparto assistenziale nel momento in cui si decide di classificare l'ammalato come cronico (19). La qual cosa generalmente avviene perché il paziente non è obiettivamente riabilitabile, o più semplicemente perché si ha bisogno del suo posto letto per un ammalato più gratificante o appartenente ad una categoria con maggior potere contrattuale (20). Lo stesso discorso vale per i pazienti affetti da ogni altra patologia curabile ma non guaribile, che necessitano di cure minime ed assistenza generica.
Purtroppo questa logica pseudotecnicistica ha affascinato anche molti operatori e politici democratici che, portando il dibattito sul piano prevalentemente scientifico, hanno contribuito a togliere le castagne dal fuoco a chi ci governa, facendo ricadere sui tecnici la responsabilità delle loro scelte impopolari, ed hanno legittimato una cultura che dì fatto persegue la razionalizzazione dell'emarginazione e non il suo superamento.
Questa impostazione del dibattito è, a mio avviso, riduttiva e fuorviante in quanto sposta sul piano tecnico una discussione che è prevalentemente politica. Dando per scontato che debba essere la sanità a farsi carico degli interventi nei confronti di tutti i cittadini ammalati, inclusi gli emiplegici non riabilitabili, i dementi ed ogni altro tipo di disabile curabile ma non guaribile, vorrei estendere la riflessione anche ai non autosufficienti «sani» quali i grandi senili, cioè coloro che non riescono a compiere le abituali funzioni della vita quotidiana a causa dell'età avanzatissima. Accomunando il destino di tutti i non autosufficienti, il quesito da porsi non è tanto se a prendersene cura debba essere la sanità o l'assistenza, bensì se debba essere la collettività o la famiglia o in sua carenza la pubblica beneficenza o la carità privata. Solo se ci troveremo d'accordo sul diritto di ogni cittadino non autosufficiente alla sicurezza sociale, potremo, liberi da ogni condizionamento di sorta, discutere serenamente per stabilire dove sia obiettivamente opportuno che terminino le competenze della sanità ed abbiano inizio quelle paraprevidenziali o sociali di altro tipo.
La prima ipotesi trova pieno accoglimento in una concezione di Stato sociale di tipo integrale, quindi in un sistema di sicurezza sociale universalistica - finanziato tramite l'imposta generale sui redditi - che assicuri il benessere psicofisico a tutti i cittadini senza distinzione alcuna, quale diritto ampiamente sancito dalla Costituzione. La seconda fa riferimento ad una concezione caritativa di pubblica beneficenza, affidata alla gestione discrezionale, degli Enti locali, che stigmatizza la miseria di una parte della popolazione, cui si pone riparo con interventi mortificanti (21).
Purtroppo oggi sta affermandosi questa seconda linea d'intervento; ciò grazie al consenso di tutte le forze politiche e dei movimenti di massa, o comunque a causa del disinteresse di quelli che dovrebbero e potrebbero opporvisi. Poiché nessuno oserebbe teorizzare esplicitamente questa prassi anacronistica, si parla di promozione di uno Stato sociale di tino residuale, che intervenga solo nei confronti delle classi meno abbienti.
L'alibi addotto per giustificare la mancata realizzazione della Stato sociale è quello della carenza delle risorse economiche a disposizione, argomentazione questa facilmente contestabile, almeno sintanto che i vari Governi ed il Parlamento perseguono una politica della spesa pubblica che privilegia altri settori e fino a che non si riesce a razionalizzare il comparto della sicurezza sociale.
Purtroppo occorre ricordare come anche i partiti che sono all'opposizione ed i sindacati hanno in gran parte convenuto sul l'interpretazione che vuole la spesa sociale in buona parte responsabile del disavanzo del settore pubblico e sulla conseguente conclusione dell'inevitabilità della crisi del Welfare State nel nostro paese. Non voglio qui entrare nel merito delle scelte politiche fatte sinora in materia di finanza pubblica, la qual cosa ci porterebbe troppo lontano; alcune considerazioni vanno però fatte, se non altro per non far sentire í fruitori dei servizi sociali responsabili della bancarotta dello Stato. Ad essere in parte responsabile del disavanzo pubblico non è tanto la spesa sociale (sanità e previdenza), in gran parte finanziata dai contributi obbligatori degli assicurati, quanto l'assistenzialismo alle imprese (fiscalizzazione degli oneri sociali, cassa integrazione, incentivazione per gli investimenti, ecc.), finanziate dal sistema impositivo, nonché gli interessi passivi relativi al debito pubblico consolidato, che detti trasferimenti alle imprese hanno contribuito in gran parte a produrre. Quanto poi ai costi per sanità e previdenza da un canto, ed assistenzialismo alle imprese ed interessi passivi dall'altro, va ricordato come i secondi siano solo dì poco inferiori ai primi, che nel quadriennio 1981/84 hanno superato i 400.000 miliardi, di cui 220.000 per trasferimenti alle imprese (22).
L'altro elemento da prendere in considerazione è quello relativo ai privilegi, alle disfunzioni ed agli sprechi e parassitismi che inibiscono l'instaurarsi di un equilibrato rapporto fra costi e benefici nell'ambito della sicurezza sociale. Si pensi, ad esempio, che nel 1984 una percentuale compresa fra l'8% ed il 20% di tutte le pensioni di invalidità previdenziale e delle integrazioni dì pensioni minime, erano non dovute; senza poi contare le babies pensioni e gli altri infiniti privilegi previdenziali (23).
A questi vanno poi aggiunte le inefficienze e gli sprechi dei pubblici servizi, quali quelli da me descritti nel paragrafo precedente. A tale proposito vorrei inoltre riferire le conclusioni cui è pervenuta un'indagine curata dal CESPE, riportate dalla rivista Rinascita in un articolo risalente a cinque anni or sono. Fatta 100 la produttività dei dipendenti ospedalieri nel 1971, questa si era ridotta a 51 nel 1980.
Conclusioni
Essendo stato portato il problema dal piano tecnico a quello economico, la scelta non può che essere politica. Chi deve provvedere alle esigenze di tutti i cittadini divenuti non autosufficienti a causa di disagi psicofisici? Vorrei ancora una volta ricordare che questi cittadini sono tutelati da una vasta legislazione non ancora abrogata, che prevede l'assistenza sanitaria a tempo indeterminato e la corresponsione della pensione di invalidità civile e dell'indennità di accompagnamento dovuta ai totalmente inabili, quindi anche ai dementi, ai grandi senili e ad ogni altro soggetto totalmente non autosufficiente.
A questo punto si possono trarre le conclusioni di tutto il lungo discorso: a meno che si voglia abrogare tutta la vigente legislazione in materia, deve essere lo Stato, tramite un nuovo ministero per la sicurezza sociale, a provvedere ai non autosufficienti. In questo caso credo divenga irrilevante, sia per l'utente che per il Ministero del bilancio, il fatto che i costi alberghieri del ricovero siano a carico del Servizio sanitario nazionale o di altro servizio pubblico, importante è che sia la sanità a garantire direttamente la continuità e la globalità dell'intervento al non autosufficiente. Qualora poi il Parlamento stabilisca l'inopportunità che sia lo Stato a farsi totalmente o parzialmente carico dei costi alberghieri del ricovero, approvi una legge che equipari i ricoverati in ospedale a quelli in altre strutture residenziali nel pagamento di un ticket sui costi alberghieri.
(1) Cfr. Rapporto della commissione d'indagine Gorrieri sulla povertà in Italia, in Prospettive sociali e sanitarie 8/9, 1986.
(2) Cfr. Indagine parlamentare del 1951 sulla miseria in Italia.
(3) Cfr. PAOLO MIELI, «Poveri ma non belli, ecco come eravamo, dati ISTAT», «Repubblica», 3 giugno 1986, p. 5.
(4) Cfr. MAURIZIO PEDONI, «Oggi sono in troppi a ricevere troppo poco», in Conoscere e partecipare, 30/1985, pp. 792/803.
(5) Cfr. «Gli anziani ospiti presso gli istituti del Veneto», in Quaderni della Banca dati, 1/1986, a cura dell'Assessorato all'assistenza della Regione Veneto.
(6) Cfr. «Indagine sui servizi sociali nel Veneto», IRSEV, 1977.
(7) Cfr. M. TOMAS, Dati sulla mortalità di persone anziane nel comune di Venezia nel 1981.
(8) Fonte: Assessorato alla sicurezza sociale del comune di Venezia.
(9) Nel 1985 esso variava dalle 10 alle 14.000 lire al giorno, il suo importo era proporzionale alla quantità e qualità delle prestazioni sanitarie erogate dalle case di riposo.
(10) Su una rilevazione relativa all'80% dei ricoverati, il 3% di tutti gli ospiti aveva un reddito inferiore alle 200.000 lire mensili, il 13% fra le 2 e le 300.000, il 27% fra le 3 e le 400.000, l'8% fra le 4 e le 500.000, l'8% fra le 5 e le 600.000, il 21% oltre le 600.000.
(11) Cfr. G. BRUGNONE, «Assistenza e solidarietà, ruolo dello Stato e della famiglia», in «Prospettive assistenziali», 69/1985, pagg. 6/13.
(12) Nel 1985 la spesa pubblica allargata ha sfiorato il 60% del prodotto interno lordo, cioè una pressione contributiva (tasse, imposte e contributi sociali), che per ogni 100 lire di ricchezza prodotta dagli italiani ne ha sottratti loro 60.
(13) L'età media dei ricoverati nel periodo 1985 - aprile 1986 era nel 6% dei casi inferiore ai 59 anni, nel 9% fra i 60 e i 69, nel 36% fra i 70 ed i 79; nel 41% fra gli 80 e gli 89, nel 7% oltre i 90.
(14) Il 10% degli ultrasessantenni non sono sposati (7,5% nubili, 2,5% celibi), il 25,7% sono vedove, il 7,5% vedovi. Cfr. D. GATTESCHI «Servizi socio-sanitari a disposizione degli anziani», Ed. N.I.S.
(15) Cfr. MARIANGELA GRAINER, intervento al convegno, «Dall'eguaglianza alle pari opportunità per la donna», Venezia, febbraio 1986.
(16) Cfr. MAURIZIO PACI, «Approfondire l'analisi sui confini fra assistenza, previdenza e solidarietà», in Conoscere e partecipare, 30/1985, pp. 785/791.
(17) Cfr. F. FONTANA S. SAVARIS, «Lo studio dei ricoveri ospedalieri impropri in un ospedale dell'ULSS n. 1 Cadore della Regione Veneto», in Difesa sociale, n. 3, maggio-giugno 1986, pp. 29/39.
(18) Cfr. ROBERTO BIANCHIN, «Per un callo 15 giorni, per una ciste 18. Ecco le degenze record», in Repubblica, 12.9.1986, pag. 16.
(19) Questa prassi è illegittima in quanto non contemplata da alcuna disposizione di legge, ed è apertamente in contrasto con i principi costituzionali resi attuativi dalla successiva normativa, culminante con la legge 833/78 istitutiva del Servizio sanitario nazionale.
(20) Secondo l'indagine condotta da operatori della USL RM9 «Il malato dichiarato cronico nell'ospedale e nel territorio», le dimissioni per cronicità sono prevalentemente motivate da necessità di posti letto; infatti esse sono meno frequenti in agosto e dicembre, mesi di minor affollamento degli ospedali, nei quali vi sono però, secondo i mass media, i famosi parcheggi dei vecchi, dovuti alle ferie della famiglia giovane.
(21) Cfr. G. AVONTO, «Nuova povertà e stato sociale» in Prospettive assistenziali, aprile-giugno 1986, pp. 11/17.
(22) Cfr. GIUSEPPE ALVARO, «Stato Sociale e debito pubblico», in Conoscere e partecipare, 30/85, pp. 774/778.
(23) Secondo la commissione Gorrieri, nel 1984 la spesa pubblica ha destinato 156.492 miliardi di lire, pari al 31% del prodotto nazionale lordo, il 21,7% per la previdenza, il 6,75% per la sanità e il 2,59% per l'assistenza.
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